L’8 marzo non è una celebrazione. È sciopero. È rifiuto del sistema patriarcale e capitalistico che si regge sullo sfruttamento dei nostri corpi, del nostro lavoro, della nostra autodeterminazione. È una giornata di lotta, nata dalla consapevolezza che la violenza di genere non è un fatto isolato, ma una struttura di potere che si riproduce, si adatta e continua a imporsi con nuove strategie.
Oggi non ci troviamo solo a fronteggiare le forme più evidenti di oppressione – il sessismo, la transfobia, il razzismo, l’abilismo, la violenza economica ed istituzionale. Ci scontriamo anche con forme più subdole, che si infiltrano nei nostri spazi, si appropriano dei nostri linguaggi, stravolgono le nostre lotte per frammentarle, per svuotarle di radicalità.
Ci dicono che il femminismo dovrebbe limitarsi a un’unica categoria di donne, escludendo chi da sempre è parte del movimento. Ci parlano di “diritti” mentre impongono restrizioni, ci parlano di “libertà” mentre legiferano sui nostri corpi. Vogliono indebolirci con la narrazione del “buon senso”, con il revisionismo che strappa via la memoria delle lotte, con il paternalismo che riduce l’autocoscienza femminista a un capriccio superato.
Ma noi sappiamo cosa significa l’8 marzo. Sappiamo che lo sciopero transfemminista è radicato nella consapevolezza che nessunə sarà libera finché qualcunə sarà oppressa. Che il patriarcato e il capitalismo si sostengono a vicenda, e che abbatterli significa rifiutare ogni forma di oppressione sistemica, farlo tenendosi per mano nelle piazze e in ogni altro spazio.
Non basta riconoscere le ingiustizie: bisogna smascherare le strategie di chi vuole dividerci, di chi usa le nostre parole contro di noi, di chi trasforma il femminismo in una causa di comodo, innocua per il potere.
Oggi la marea transfemminista sciopera e fa rumore.
Perché la nostra lotta è memoria e futuro, è consapevolezza e rivoluzione ed è incontenibile!
